martedì 18 aprile 2017

I grattacieli di Massimo Galuppi

Dal 22 al 30 aprile Studio d'Arte 15 a Cesena ospita L'anima e il grattacielo, una mostra dedicata ai dipinti di Massimo Galuppi, a cura di Alessandra Cocchi.


La locandina della mostra



L'ingresso alla mostra





Alcune immagini dell'allestimento.


Recensioni

         Colei che qui ed ora, nel mentre che fa riaffiorare sensazioni dalla distanza temporale intercorsa, tenta anche di tradurle trascrivendole, è la medesima che, quel giorno di due mesi fa, partita con l'intento di scattare fotografie alle tavole dipinte di Massimo Galuppi, si trovò incentrata in un'esperienza quasi mistica, una sorta di astrazione a-spaziale, o meglio pluri-spaziale, che con un soggetto artistico differente –  figurativo, magari – avrebbe avuto forse di che confondersi con una manifestazione leggera di Sindrome di Stendhal.
Invece si trattò di una progressiva (a mano a mano che si realizzava frontalmente l'appropinquamento fisico al dipinto) compenetrazione psico-logica dell'anima spettatrice con la sostanza materica dell'architettura colà scomposta e riassemblata in pittura.



Massimo Galuppi. Manhattan 2010

         Galeotta sarà stata la suggestione d'atmosfera; oppure a dischiudere il sipario percettivo della fotografa sarà stata la solidarietà di lei con gli intenti espressivi accalcati nel cantiere pittorico dall'artista cesenate (che da ormai lungo tempo la scrivente conosce, e che costantemente riconosce congeniale a sé).
O forse, a perpetrare l'incanto astraente di cui chi scrive si è trovata vittima contenta, non era proprio quella inconfondibile qualità pluridimensionale dei dipinti di Galuppi? Quella loro complessità (de)costruttiva di accostamenti e di sovrapposizioni, che in maniera così singolare ed originale (dunque riconoscibile) ottiene di approfondire i suoi dipinti in ambo le direzioni – orizzontale e verticale – previste dallo schermo pittorico. Nelle opere galuppiane invero sempre si constata una bidimensionalità controversa, si direbbe recalcitrante a dover – per statuto pittorico – rinunciare alla terza dimensione, quella che è propria, costitutiva, ed anzi essenziale, del (s)oggetto architettonico (di cui la pittura di Galuppi è cantrice).



Massimo Galuppi Manhattan 2012

Anzi, la interiore movimentata molteplicità della superficie ritratta mai s'acquieta nella levigatezza bidimensionale pittoricamente attesa, inficiata sempre com'è dall'emergere materico di sottili presenze aggettanti, quegli innervati filamenti di pasta deposti in contrasto cromatico, a rivendicare alla reinventata architettura dipinta la caratteristica qualificante – e non solo in senso architettonico – di “avere spessore”. Quali, infatti, impalcature metalliche a sorreggere i lavoranti impegnati nel rifacimento di un edificio in ristrutturazione, così le “canalette linfatiche” di smalto profilano le porzioni (ritorte, distorte e riconfigurate dalla mano dell'artista) dell'architettura prescelta, a rilevarsi come trama e fascino di ragno che alletta e attrae fatale l'insetto. C'è infatti una catturante potenza di attrazione entro il reticolo irregolare di tali cellule dai profili rilevati in pasta color biancastro o argenteo o azzurrato o nero. C'è l'imponderabile e lo schiocco della crosta terrestre che si crepa nel moto vitale della peculiarissima tettonica archi-tettonica messa su tavola da Galuppi.



Massimo Galuppi. Manhattan 2012

In colei che ragno attirato nella tela si sentì allora, ed ora si risente e ne scrive, al cospetto dei dipinti galuppiani c'è quella medesima emozione che la commuove interiormente allorquando si rinviene dinanzi ad un planisfero, quasi che a materializzarsi sulla parete fosse allora la fantasmagorica mappa del tesoro –  da ciascuno sognata in età non sospetta –, ed il tesoro fosse ogni potenziale umanamente realizzabile. Sul palcoscenico della tela, insomma, un planisfero di possibilità spalancatesi a sfida dinanzi alla nostra abitudinaria ottusità, acquisizione insensibile del divenir adulti. Ogni quadro diventa allora un invito a rimescolare i puzzle della nostra esistenza, consci che c’è sempre l’opportunità di fare di tale nostra esistenza l'arena su cui potrebbe scatenarsi ed inverarsi l'irreale, se solo si avesse noi il coraggio di reimpostarci su di essa ed, in base alle nuove configurazioni lì rappresentate, riprogrammare il nostro sentiero vitale.



Massimo Galuppi. Manhattan 2014

         In definitiva, non in altro che in tale scardinamento ed intimo sommovimento del solido architettonico in ricomposizioni altre ed eventuali, in riattuazioni dell'esistente, dunque nella rigenerazione alternativa del costruito (ossia del reale), in ciò, risiede la maggior scintilla di attrazione nella poetica pittorica di Massimo Galuppi. A parere della scrivente, s’intende. Ciò che intriga lei è, insomma, il galuppiano configurare assetti alternativi di un reale – quello architettonico – che, talmente quotidiano, concreto, solido e corpulento, purtuttavia paradossalmente risulta negletto dalla vista e, genericamente, dalla percezione sensoriale del riguardante. Ne consegue che dall'occhio e dal sentire insensibili del passante, codesta tanto imponente presenza architettonica finisca inclusa nel novero delle staticità date per scontate, dei dati stabili (non è, d’altronde, “stabile” uno dei sinonimi di “edificio”?), considerata alla stregua di una mera invarianza percettiva all’interno della semplificata e carente cognizione urbanistica (e conseguentemente culturale tout court) del cittadino.
È allora proprio in questo snodo etico-sociale, che si insinua il modus pittorico galuppiano, che – quasi suggerendosi come pharmacon –, si ribella a tale intestardita pigrizia civica, impugna il pennello quasi fosse piccone, rivanga il lotto edificato, ripensa l’alzato ed i volumi, rinviene nuovi ordinamenti possibili per murature mattoni tegole finestre soppalchi tetti scale ciminiere etc. Per, infine (con desiderato effetto consequenziale di un’iniziale sorpresa e la successiva comparazione critica fra la versione reale e quella rigenerata) restituire al riguardante l’oggetto architettonico noto in una forma inaudita. Suscitando meraviglia.



Massimo Galuppi. Manhattan 2014

Quella stessa meraviglia, da cui nemmeno l’artista è esente. Sicché accade che, inizialmente rapito egli dalla configurazione attuale dell’architettura, è infine l'artista stesso che la rapisce, facendosene ricreatore, sollevandone la pelle per reimmaginarne l'accostamento cellulare secondo modalità rigenerate (e – tale l’auspicio – rigeneranti). Terminologia biologica non fuori luogo, dacché l'intera operazione messa in atto con tratti e campiture, simbolicamente funge da chirurgia estetica (e dunque contemporaneamente etica, secondo l'ottimo detto wittgensteiniano) dell'organismo architettonico, ed in più larga scala urbanistico, a disposizione del corpo civico. Con talora perfino degli autentici riposizionamenti del D.N.A. plastico e statico.
Si badi, tuttavia, che il nastro di partenza è sempre il “dato” (il reale, il costruito – imprigionato che sia in scatto fotografico, ovvero calamitato in figura memoriale da un’antica visione autoriale –), su cui il processo artistico lavora per revocare questa (troppo) assodata “datità” e tramutarla in uno degli innumerevoli potenziali esistibili, ma non pervenuti a realizzazione, poiché scalzati dall'unico prescelto.



Massimo Galuppi. Manhattan 2016 

         È dunque consustanzialmente filosofica questa arte, che reduplica il reale e lo rifrange in una pozzanghera cromatica e formale di tentativi costruttivi inespressi, colmando questa loro latente richiesta di attuazione con il surrogato pittorico di una esistibilità opzionale. Rimettere in campo i progetti scartati, istigare alla ribellione le alternative costruttive sconfitte o nemmeno concepite... Provocazione ad esistere? Si potrebbe ipotizzare un’arte con intento provocatorio, dunque. La filosofia è certo un balsamo fin troppo intridente per le menti prone a concederlesi. Sovverrebbero certamente Aristotele, con i suoi requisiti di accidente e le spole fra potenza ed atto (e viceversa: in verità, la fattispecie della procedura galuppiana parte dal realizzato, da cui estrae, trae e contrae configurazioni inesistenti – e, per essere sinceri, per lo più inesistibili –), Platone, Heidegger (tutti architetti di filosofia e filosofi di architettura); nonché la semiotica letterario-urbanistica di certo Ricœur, e ancora ovviamente certa avanguardia pittorica, certa fantascienza (declinata in libri ed in film), senza poter tralasciare l'immaginativa urbanistica calviniana, sempre sospesa tra esistibilità dell’inesistente e suo contrario. E così innanzi procedendo, poiché, a voler precisare l’humus che ha allevato la pittura galuppiana, si potrebbe allegare ancora una panoramica di altri stimoli e modelli lunga millenni e larga continenti. Non andremo, però, ad aggravare di tali complicanze concettuali le astratte tessere cromo-formali galuppiane, che così come sono – pure da incrostazioni troppo cerebrali –    restano appese assai leggiadramente al loro rinnovato tessuto connettivo, imbragate da lievi immaginifiche punzonature in paste metalliche: aggregate, sì, fra loro,  ma pur sempre ammiccanti ad un eventuale – e non da escludersi... – rimescolamento pitto-archi-tettonico.
         Nell’opera galuppiana, scodellato su tela è niente meno che lo statuto della precarietà d'esistere. Instabilità, sospensione, indecisione, inconcludenza, insoddisfazione: in definitiva, quella che il pittore astrattista e mistico Massimo Galuppi sunteggia è la finitezza dell’uomo, (ri)scoprendo dalla sua prospettiva originalissima incastrata fra architettura, fotografia e pittura, che il minimo comune denominatore strutturale dell’uomo è il mutamento, è vento, è polvere: quella biblica “polvere”, che – pur con tutti i rimescolamenti accidentali che potrà subire – ritornerà comunque sempre polvere.
Tanto più spettacolare, allora, che non ne discenda un senso tragico dell’esistere. Perché anzi, proprio quel sagace ed autoironico invito, che le tessere pittoriche ed architettoniche galuppiane ci insinuano, a continuamente riconsiderarsi, per rigenerarsi, quell’essere loro custodi di uno spirito di trasmutazione perpetua vivificante, ebbene ciò risulta essere sorgente di conforto. Almeno per chi – ed è colei che ancora, ma non ormai per molto, sta scrivendo – veleggia in tale nostra piega generazionale ed epocale signoreggiata da una insoverchiabile espansa precarietà. Sarà allora forse anche per tale insospettata attualità del farmaco galuppiano, che le misture architettoniche del mago Galuppi agiscono su di lei – sia allorquando è fotografa sia quando scrittrice sia quando semplice riguardante – come iniezioni di propositività, stimolatori di costruttività ed incantesimi di fiducia.

Ambra Marzocchi, 16 Dicembre 2010



Massimo Galuppi. Manhattan 2016



Massimo Galuppi è un pittore i cui soggetti privilegiati sono le architetture contemporanee, internazionali ma anche locali, come dimostra un ciclo pittorico (16 quadri) interamente dedicato al quartiere ex Zuccherificio di Cesena. Le sue opere, di figurazione non accademica, sono riconducibili a uno stile che si situa nello snodo tra formale e informale - con influssi di digital art nella strutturazione compositiva ed un uso del colore insieme carnoso e irreale - e occupano una posizione originale nel panorama artistico non solo cesenate.

Renato Loris Mariotti,  2010

I cicli pittorici prodotti negli ultimi anni dal pittore Massimo Galuppi hanno ricevuto, in più occasioni, un meritato riconoscimento, sia da parte di un pubblico interessato, che di una critica attenta. Ciò che qui interessa segnalare di questo itinerario espressivo non è tanto l’originalità dei temi oggetto dell’opera di Galuppi – seppur unici  –, quanto la necessità poetica di svolgere la propria indagine pittorica a partire dall’osservazione attenta della città contemporanea. […] il cui percorso, un po' schematicamente, lo si può anche pensare quale interazione tra macrocosmo dello spazio urbano e microcosmo del corpo architettonico[…].
Un percorso, quindi, che dispiegandosi da un primo ciclo, CittàPolis, in cui palinsesti di colore e forme reinterpretano l’articolarsi di ipotetiche stratificazioni urbane, si sofferma poi, sulle poetiche interpretazione degli spazi pubblici del quartiere ex Zuccherificio di Cesena di Gregotti, là dove il principio insediativo fondato sul tema della piazza quale nucleo aggregativo attorno al quale si articola lo spazio urbano viene rielaborato in uno spazio “sospeso”, trasfigurato in oniriche dissolvenze prospettiche. Quasi come in un successivo passaggio di scala urbana, troviamo poi alcune visioni più dettagliatamente architettoniche, quali la “composita” torre del centro meteorologico di Barcellona di Alvaro Siza, o il “metafisico” volume del cimitero di San Cataldo a Modena di Aldo Rossi, (si veda anche lo “scomposto” equilibrio cromatico della torre di Hans Kollhoff a Berlino). L’ultimo ciclo, SacerArch, sviluppa, più specificatamente, istanze cariche di sacralità, mediante la rilettura di due architetture complementari: l’asciutto espressivismo, quasi metafisico, dell’interno della cappella Notre-Dame du Haute a Ronchamp di Le Corbusier e l’equilibrato lirismo della chiesa della Sacra Famiglia a Genova di Ludovico Quaroni. […]
In conclusione: nessun intento “rappresentativo” pervade queste visioni, le quali appaiono voler additarci, semplicemente, “segni sospesi” di una ricomposta e meditata bellezza in questa nostra contraddittoria contemporaneità.

Johnny Farabegoli, 2009



Massimo Galuppi realizza le sue opere con tecnica mista su cartoncino o su tela. Ma è sopratutto la grafica digitale lo strumento espressivo di cui il Galuppi si serve per la sua attività artistica, il mezzo più idoneo per manipolare e trasformare immagini e disegni per la stesura dei colori e la loro gradazione cromatica.
Il colore, il pennello e la tela sono, da sempre, gli strumenti più semplici per svolgere l'attività pittorica. Massimo Galuppi è, invece, un'artista che, come pochi altri, impiega mezzi espressivi diversi. Le immagini, ideate nella sua fantasia creatrice, le costruisce con la grafica digitale. A questo primo atto fa seguire un complesso lavoro di manipolazione, disgregazione e ricostruzione. Il terzo movimento è rappresentato dalla campitura dei colori, usati e dosati con attenta cura e parsimonia. Un altro tratto non comune, anzi singolare, del Galuppi è il modo con cui si serve del bianco e del nero, in particolare di quest'ultimo, vera "pietra filosofale" della ricerca galuppiana, che sa dare forma vitale all'informale.

AAttilio Bazzani



Cromie 2015.
Questa nuova esposizione dell'artista cesenate Massimo Galuppi, pur nell'esiguità del numero dei lavori esposti, costituisce un'ulteriore metamorfosi linguistica di una rinnovata e feconda ricerca pittorica  che sembra ora svincolarsi dalle più serrate "strutture" geometriche del precedente ciclo dedicato a Manhattan (in particolare "Manhattan/3"), di cui rimangono, comunque, in-visibili tracce.
Nel rinnovato sguardo che qui ci viene offerto dall'artista, i lavori del ciclo "Zen-Cromie"  sembrano caratterizzati da un processo pittorico-compositivo che procede per "semplificazioni" dei propri elementi costitutivi, in grado però di spingere lo sguardo dell'osservatore proprio là dove,"apparentemente", sembrerebbe non esserci "nulla" da vedere.Così, come l'adagio svolgersi diun lirico movimento musicaletrae sostanza dal"necessitante" silenzio-attesache antecede il sorgere dell'evento sonoro - e a cui rimane indissolubilmente legato -,  allo stesso modo lo "spazio vuoto" che sembra espandersi sulla tela dà corpo e sostanza all'articolarsi  dell'orditura/partituradella composizione cromatica.

E proprio da questa "prospettiva zen"sembra riflettersi, come in uno specchio, la "semplice pienezza" che feconda la linearità delle forme, e che, al pari di un sapienziale motto zen, sembra ricordarci che il "vero vedere è quando (apparentemente) non c'è più nulla da vedere".

Johnny Farabegoli, 2015