Dal 22 al 30 aprile Studio d'Arte 15 a Cesena ospita L'anima e il grattacielo, una mostra dedicata ai dipinti di Massimo Galuppi, a cura di Alessandra Cocchi.
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La locandina della mostra |
Recensioni
Colei che qui ed ora, nel mentre che fa
riaffiorare sensazioni dalla distanza temporale intercorsa, tenta anche di
tradurle trascrivendole, è la medesima che, quel giorno di due mesi fa, partita
con l'intento di scattare fotografie alle tavole dipinte di Massimo Galuppi, si
trovò incentrata in un'esperienza quasi mistica, una sorta di astrazione
a-spaziale, o meglio pluri-spaziale, che con un soggetto artistico differente – figurativo, magari – avrebbe avuto forse di
che confondersi con una manifestazione leggera di Sindrome di Stendhal.
Invece si trattò di
una progressiva (a mano a mano che si realizzava frontalmente
l'appropinquamento fisico al dipinto) compenetrazione psico-logica dell'anima
spettatrice con la sostanza materica dell'architettura colà scomposta e
riassemblata in pittura.
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Massimo Galuppi. Manhattan 2010 |
Galeotta sarà stata la suggestione
d'atmosfera; oppure a dischiudere il sipario percettivo della fotografa sarà
stata la solidarietà di lei con gli intenti espressivi accalcati nel cantiere
pittorico dall'artista cesenate (che da ormai lungo tempo la scrivente conosce,
e che costantemente riconosce congeniale a sé).
O forse, a
perpetrare l'incanto astraente di cui chi scrive si è trovata vittima contenta,
non era proprio quella inconfondibile qualità pluridimensionale dei dipinti di
Galuppi? Quella loro complessità (de)costruttiva di accostamenti e di
sovrapposizioni, che in maniera così singolare ed originale (dunque
riconoscibile) ottiene di approfondire i suoi dipinti in ambo le direzioni –
orizzontale e verticale – previste dallo schermo pittorico. Nelle opere
galuppiane invero sempre si constata una bidimensionalità controversa, si
direbbe recalcitrante a dover – per statuto pittorico – rinunciare alla terza
dimensione, quella che è propria, costitutiva, ed anzi essenziale, del
(s)oggetto architettonico (di cui la pittura di Galuppi è cantrice).
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Massimo Galuppi Manhattan 2012 |
Anzi, la interiore
movimentata molteplicità della superficie ritratta mai s'acquieta nella levigatezza
bidimensionale pittoricamente attesa, inficiata sempre com'è dall'emergere
materico di sottili presenze aggettanti, quegli innervati filamenti di pasta
deposti in contrasto cromatico, a rivendicare alla reinventata architettura
dipinta la caratteristica qualificante – e non solo in senso architettonico –
di “avere spessore”. Quali, infatti, impalcature metalliche a sorreggere i
lavoranti impegnati nel rifacimento di un edificio in ristrutturazione, così le
“canalette linfatiche” di smalto profilano le porzioni (ritorte, distorte e
riconfigurate dalla mano dell'artista) dell'architettura prescelta, a rilevarsi
come trama e fascino di ragno che alletta e attrae fatale l'insetto. C'è
infatti una catturante potenza di attrazione entro il reticolo irregolare di
tali cellule dai profili rilevati in pasta color biancastro o argenteo o
azzurrato o nero. C'è l'imponderabile e lo schiocco della crosta terrestre che
si crepa nel moto vitale della peculiarissima tettonica archi-tettonica messa
su tavola da Galuppi.
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Massimo Galuppi. Manhattan 2012 |
In colei che ragno
attirato nella tela si sentì allora, ed ora si risente e ne scrive, al cospetto
dei dipinti galuppiani c'è quella medesima emozione che la commuove
interiormente allorquando si rinviene dinanzi ad un planisfero, quasi che a
materializzarsi sulla parete fosse allora la fantasmagorica mappa del tesoro
– da ciascuno sognata in età non
sospetta –, ed il tesoro fosse ogni potenziale umanamente realizzabile. Sul
palcoscenico della tela, insomma, un planisfero di possibilità spalancatesi a
sfida dinanzi alla nostra abitudinaria ottusità, acquisizione insensibile del
divenir adulti. Ogni quadro diventa allora un invito a rimescolare i puzzle
della nostra esistenza, consci che c’è sempre l’opportunità di fare di tale
nostra esistenza l'arena su cui potrebbe scatenarsi ed inverarsi l'irreale, se
solo si avesse noi il coraggio di reimpostarci su di essa ed, in base alle
nuove configurazioni lì rappresentate, riprogrammare il nostro sentiero vitale.
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Massimo Galuppi. Manhattan 2014 |
In definitiva, non in altro che in tale
scardinamento ed intimo sommovimento del solido architettonico in
ricomposizioni altre ed eventuali, in riattuazioni dell'esistente, dunque nella
rigenerazione alternativa del costruito (ossia del reale), in ciò, risiede la
maggior scintilla di attrazione nella poetica pittorica di Massimo Galuppi. A
parere della scrivente, s’intende. Ciò che intriga lei è, insomma, il
galuppiano configurare assetti alternativi di un reale – quello architettonico
– che, talmente quotidiano, concreto, solido e corpulento, purtuttavia
paradossalmente risulta negletto dalla vista e, genericamente, dalla percezione
sensoriale del riguardante. Ne consegue che dall'occhio e dal sentire
insensibili del passante, codesta tanto imponente presenza architettonica
finisca inclusa nel novero delle staticità date per scontate, dei dati stabili
(non è, d’altronde, “stabile” uno dei sinonimi di “edificio”?), considerata
alla stregua di una mera invarianza percettiva all’interno della semplificata e
carente cognizione urbanistica (e conseguentemente culturale tout court) del cittadino.
È allora proprio in
questo snodo etico-sociale, che si insinua il modus pittorico
galuppiano, che – quasi suggerendosi come pharmacon –, si ribella a tale intestardita pigrizia
civica, impugna il pennello quasi fosse piccone, rivanga il lotto edificato,
ripensa l’alzato ed i volumi, rinviene nuovi ordinamenti possibili per murature
mattoni tegole finestre soppalchi tetti scale ciminiere etc. Per, infine (con
desiderato effetto consequenziale di un’iniziale sorpresa e la successiva
comparazione critica fra la versione reale e quella rigenerata) restituire al
riguardante l’oggetto architettonico noto in una forma inaudita. Suscitando
meraviglia.
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Massimo Galuppi. Manhattan 2014 |
Quella stessa
meraviglia, da cui nemmeno l’artista è esente. Sicché accade che, inizialmente
rapito egli dalla configurazione attuale dell’architettura, è infine l'artista
stesso che la rapisce, facendosene ricreatore, sollevandone la pelle per
reimmaginarne l'accostamento cellulare secondo modalità rigenerate (e – tale
l’auspicio – rigeneranti). Terminologia biologica non fuori luogo, dacché
l'intera operazione messa in atto con tratti e campiture, simbolicamente funge
da chirurgia estetica (e dunque contemporaneamente etica, secondo l'ottimo
detto wittgensteiniano) dell'organismo architettonico, ed in più larga scala
urbanistico, a disposizione del corpo civico. Con talora perfino degli
autentici riposizionamenti del D.N.A. plastico e statico.
Si badi, tuttavia,
che il nastro di partenza è sempre il “dato” (il reale, il costruito – imprigionato
che sia in scatto fotografico, ovvero calamitato in figura memoriale da
un’antica visione autoriale –), su cui il processo artistico lavora per
revocare questa (troppo) assodata “datità” e tramutarla in uno degli
innumerevoli potenziali esistibili, ma non pervenuti a realizzazione, poiché
scalzati dall'unico prescelto.
È dunque consustanzialmente filosofica questa arte, che reduplica il reale e lo rifrange in una pozzanghera cromatica e formale di tentativi costruttivi inespressi, colmando questa loro latente richiesta di attuazione con il surrogato pittorico di una esistibilità opzionale. Rimettere in campo i progetti scartati, istigare alla ribellione le alternative costruttive sconfitte o nemmeno concepite... Provocazione ad esistere? Si potrebbe ipotizzare un’arte con intento provocatorio, dunque. La filosofia è certo un balsamo fin troppo intridente per le menti prone a concederlesi. Sovverrebbero certamente Aristotele, con i suoi requisiti di accidente e le spole fra potenza ed atto (e viceversa: in verità, la fattispecie della procedura galuppiana parte dal realizzato, da cui estrae, trae e contrae configurazioni inesistenti – e, per essere sinceri, per lo più inesistibili –), Platone, Heidegger (tutti architetti di filosofia e filosofi di architettura); nonché la semiotica letterario-urbanistica di certo Ricœur, e ancora ovviamente certa avanguardia pittorica, certa fantascienza (declinata in libri ed in film), senza poter tralasciare l'immaginativa urbanistica calviniana, sempre sospesa tra esistibilità dell’inesistente e suo contrario. E così innanzi procedendo, poiché, a voler precisare l’humus che ha allevato la pittura galuppiana, si potrebbe allegare ancora una panoramica di altri stimoli e modelli lunga millenni e larga continenti. Non andremo, però, ad aggravare di tali complicanze concettuali le astratte tessere cromo-formali galuppiane, che così come sono – pure da incrostazioni troppo cerebrali – restano appese assai leggiadramente al loro rinnovato tessuto connettivo, imbragate da lievi immaginifiche punzonature in paste metalliche: aggregate, sì, fra loro, ma pur sempre ammiccanti ad un eventuale – e non da escludersi... – rimescolamento pitto-archi-tettonico.
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Massimo Galuppi. Manhattan 2016 |
È dunque consustanzialmente filosofica questa arte, che reduplica il reale e lo rifrange in una pozzanghera cromatica e formale di tentativi costruttivi inespressi, colmando questa loro latente richiesta di attuazione con il surrogato pittorico di una esistibilità opzionale. Rimettere in campo i progetti scartati, istigare alla ribellione le alternative costruttive sconfitte o nemmeno concepite... Provocazione ad esistere? Si potrebbe ipotizzare un’arte con intento provocatorio, dunque. La filosofia è certo un balsamo fin troppo intridente per le menti prone a concederlesi. Sovverrebbero certamente Aristotele, con i suoi requisiti di accidente e le spole fra potenza ed atto (e viceversa: in verità, la fattispecie della procedura galuppiana parte dal realizzato, da cui estrae, trae e contrae configurazioni inesistenti – e, per essere sinceri, per lo più inesistibili –), Platone, Heidegger (tutti architetti di filosofia e filosofi di architettura); nonché la semiotica letterario-urbanistica di certo Ricœur, e ancora ovviamente certa avanguardia pittorica, certa fantascienza (declinata in libri ed in film), senza poter tralasciare l'immaginativa urbanistica calviniana, sempre sospesa tra esistibilità dell’inesistente e suo contrario. E così innanzi procedendo, poiché, a voler precisare l’humus che ha allevato la pittura galuppiana, si potrebbe allegare ancora una panoramica di altri stimoli e modelli lunga millenni e larga continenti. Non andremo, però, ad aggravare di tali complicanze concettuali le astratte tessere cromo-formali galuppiane, che così come sono – pure da incrostazioni troppo cerebrali – restano appese assai leggiadramente al loro rinnovato tessuto connettivo, imbragate da lievi immaginifiche punzonature in paste metalliche: aggregate, sì, fra loro, ma pur sempre ammiccanti ad un eventuale – e non da escludersi... – rimescolamento pitto-archi-tettonico.
Nell’opera galuppiana, scodellato su
tela è niente meno che lo statuto della precarietà d'esistere. Instabilità,
sospensione, indecisione, inconcludenza, insoddisfazione: in definitiva, quella
che il pittore astrattista e mistico Massimo Galuppi sunteggia è la finitezza
dell’uomo, (ri)scoprendo dalla sua prospettiva originalissima incastrata fra
architettura, fotografia e pittura, che il minimo comune denominatore
strutturale dell’uomo è il mutamento, è vento, è polvere: quella biblica
“polvere”, che – pur con tutti i rimescolamenti accidentali che potrà subire –
ritornerà comunque sempre polvere.
Tanto più
spettacolare, allora, che non ne discenda un senso tragico dell’esistere.
Perché anzi, proprio quel sagace ed autoironico invito, che le tessere
pittoriche ed architettoniche galuppiane ci insinuano, a continuamente
riconsiderarsi, per rigenerarsi, quell’essere loro custodi di uno spirito di
trasmutazione perpetua vivificante, ebbene ciò risulta essere sorgente di
conforto. Almeno per chi – ed è colei che ancora, ma non ormai per molto, sta
scrivendo – veleggia in tale nostra piega generazionale ed epocale
signoreggiata da una insoverchiabile espansa precarietà. Sarà allora forse
anche per tale insospettata attualità del farmaco galuppiano, che le misture
architettoniche del mago Galuppi agiscono su di lei – sia allorquando è
fotografa sia quando scrittrice sia quando semplice riguardante – come
iniezioni di propositività, stimolatori di costruttività ed incantesimi di
fiducia.
Massimo Galuppi è un pittore i
cui soggetti privilegiati sono le architetture contemporanee, internazionali ma
anche locali, come dimostra un ciclo pittorico (16 quadri) interamente dedicato
al quartiere ex Zuccherificio di Cesena. Le sue opere, di figurazione non
accademica, sono riconducibili a uno stile che si situa nello snodo tra formale
e informale - con influssi di digital art nella strutturazione compositiva ed
un uso del colore insieme carnoso e irreale - e occupano una posizione
originale nel panorama artistico non solo cesenate.
Renato Loris Mariotti, 2010
I cicli pittorici prodotti
negli ultimi anni dal pittore Massimo Galuppi hanno ricevuto, in più occasioni,
un meritato riconoscimento, sia da parte di un pubblico interessato, che di una
critica attenta. Ciò che qui interessa segnalare di questo itinerario
espressivo non è tanto l’originalità dei temi oggetto dell’opera di Galuppi –
seppur unici –, quanto la necessità
poetica di svolgere la propria indagine pittorica a partire
dall’osservazione attenta della città contemporanea. […] il cui percorso, un
po' schematicamente, lo si può anche pensare quale interazione tra macrocosmo
dello spazio urbano e microcosmo del corpo architettonico[…].
Un percorso, quindi, che
dispiegandosi da un primo ciclo, CittàPolis, in cui palinsesti di colore
e forme reinterpretano l’articolarsi di ipotetiche stratificazioni urbane, si
sofferma poi, sulle poetiche interpretazione degli spazi pubblici del quartiere
ex Zuccherificio di Cesena di Gregotti, là dove il principio insediativo
fondato sul tema della piazza quale nucleo aggregativo attorno al quale si
articola lo spazio urbano viene rielaborato in uno spazio “sospeso”,
trasfigurato in oniriche dissolvenze prospettiche. Quasi come in un successivo
passaggio di scala urbana, troviamo poi alcune visioni più
dettagliatamente architettoniche, quali la “composita” torre del centro
meteorologico di Barcellona di Alvaro Siza, o il “metafisico” volume del
cimitero di San Cataldo a Modena di Aldo Rossi, (si veda anche lo “scomposto”
equilibrio cromatico della torre di Hans Kollhoff a Berlino). L’ultimo ciclo, SacerArch,
sviluppa, più specificatamente, istanze cariche di sacralità, mediante
la rilettura di due architetture complementari: l’asciutto espressivismo, quasi
metafisico, dell’interno della cappella Notre-Dame du Haute a Ronchamp di Le
Corbusier e l’equilibrato lirismo della chiesa della Sacra Famiglia a Genova di
Ludovico Quaroni. […]
In conclusione: nessun intento
“rappresentativo” pervade queste visioni, le quali appaiono voler
additarci, semplicemente, “segni sospesi” di una ricomposta e meditata bellezza
in questa nostra contraddittoria contemporaneità.
Johnny
Farabegoli, 2009
Massimo Galuppi realizza le sue opere
con tecnica mista su cartoncino o su tela. Ma è sopratutto la grafica digitale
lo strumento espressivo di cui il Galuppi si serve per la sua attività
artistica, il mezzo più idoneo per manipolare e trasformare immagini e disegni
per la stesura dei colori e la loro gradazione cromatica.
Il colore, il
pennello e la tela sono, da sempre, gli strumenti più semplici per svolgere
l'attività pittorica. Massimo Galuppi è, invece, un'artista che, come pochi
altri, impiega mezzi espressivi diversi. Le immagini, ideate nella sua fantasia
creatrice, le costruisce con la grafica digitale. A questo primo atto fa
seguire un complesso lavoro di manipolazione, disgregazione e ricostruzione. Il
terzo movimento è rappresentato dalla campitura dei colori, usati e dosati con
attenta cura e parsimonia. Un altro tratto non comune, anzi singolare, del
Galuppi è il modo con cui si serve del bianco e del nero, in particolare di
quest'ultimo, vera "pietra filosofale" della ricerca galuppiana, che
sa dare forma vitale all'informale.
AAttilio Bazzani
Cromie 2015.
Questa nuova esposizione
dell'artista cesenate Massimo Galuppi, pur nell'esiguità del numero dei lavori
esposti, costituisce un'ulteriore metamorfosi linguistica di una rinnovata e
feconda ricerca pittorica che sembra ora
svincolarsi dalle più serrate "strutture" geometriche del precedente
ciclo dedicato a Manhattan (in particolare "Manhattan/3"), di cui
rimangono, comunque, in-visibili tracce.
Nel rinnovato sguardo che qui ci
viene offerto dall'artista, i lavori del ciclo "Zen-Cromie" sembrano caratterizzati da un processo pittorico-compositivo
che procede per "semplificazioni" dei propri elementi costitutivi, in
grado però di spingere lo sguardo dell'osservatore proprio là dove,"apparentemente",
sembrerebbe non esserci "nulla" da vedere.Così, come l'adagio
svolgersi diun lirico movimento musicaletrae sostanza
dal"necessitante" silenzio-attesache antecede il sorgere dell'evento
sonoro - e a cui rimane indissolubilmente legato -, allo stesso modo lo "spazio vuoto"
che sembra espandersi sulla tela dà corpo e sostanza all'articolarsi dell'orditura/partituradella composizione cromatica.
E proprio da questa
"prospettiva zen"sembra riflettersi, come in uno specchio, la "semplice
pienezza" che feconda la linearità delle forme, e che, al pari di un sapienziale
motto zen, sembra ricordarci che il "vero vedere è quando (apparentemente)
non c'è più nulla da vedere".
Johnny Farabegoli, 2015